L'indiano metropolitano #8 - Storia e utilizzo della dizione "radical chic"
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Come nascono i radical chic
Come nascono i radical chic
Due giorni fa il solitamente prudente Nicola Zingaretti - è il suo pregio e il suo difetto, l’utilizzare sempre toni pacati, al limite della noia mortale - ha avuto un sussulto di rabbia, o di stizza, o di carattere. L’ha tirata fuori per attaccare una giornalista, Concita De Gregorio, colpevole di aver scritto un lungo commento-analisi non gradito su Repubblica.
Desta stupore l’utilizzo da parte del segretario pd della parola radical chic, lanciata a mo’ di stigma, verso la stessa De Gregorio. La radical chic De Gregorio, rappresentante della sinistra elitaria. Zingaretti non è un politicante nato ieri, scaraventato alla guida del Pd per caso. Ha una lunga storia da dirigente della giovanile comunista e poi nel Pds, Ds, Pd; luoghi dove veniva inculcata una certa capacità e misura, figlia della conoscenza, nell’utilizzo delle parole.
Come fa Zingaretti a non sapere che l’accusa di appartenere alla schiera dei radical chic è un artificio retorico di destra, reazionario, un’accusa che non ha alcun valore politico ma esclusivamente discriminatorio?
La storia è questa. Nel 1970 il giornalista conservatore Tom Wolfe scrive un reportage sull’incontro organizzato dal famoso compositore Leonard Bernstein (un ebreo, il che evidentemente per l’autore aggiungeva un contorno speciale…) nella sua bella abitazione di New York per ospitare e raccogliere fondi per le Pantere Nere, il partito rivoluzionario e socialista della minoranza afroamericana di quegli anni. Ricchi e intellettuali con la fregola marxista, per i quali coniò il termine ad hoc, appunto radical chic. La discussione veniva così spostata dai termini del conflitto sociale e delle discriminazioni al fatto che un benestante sostenesse quella lotta.
La critica implicita non è nuova, tempo fa lessi un godibile episodio con protagonista Luciano Bianciardi. Lo scrittore lavorava in Feltrinelli, partecipava ad una riunione durante la quale il fondatore Giangiacomo* fece una specie di comizio rivoluzionario e il Bianciardi, annoiato e miscredente, anti-ideologico, si alzò, si mise addosso il costoso cappotto di cammello di Feltrinelli e andando via salutò a pugnò chiuso: «Viva la revoluciòn».
Sono nati molti luoghi comuni simili nel tempo. Dai classici “cuore a sinistra portafoglio a destra” e “zecche figli di papà” al moderno “sei di sinistra e hai l’iPhone?”. Inchiodare chi professa idee di sinistra al proprio - reale o presunto - comportamento ipocrita è sport diffuso nel tempo, utilissimo a depotenziarne il pensiero e a deriderne le intenzioni. Ma soprattutto, per restare ai tempi recenti, radical chic è l’arma più utilizzata dai sovranisti, dai neofascisti (ma pure dai liberisti) di mezzo mondo e negli ultimi anni con una ossessività sorprendente. In questo la destra ha fatto egemonia, se anche un post-comunista come Zingaretti utilizza l’epiteto come principale strumento di replica ad un avversario o a qualcuno di sgradito.
La destra accusa determinati personaggi di essere radical chic per poter dimostrare che loro, quelli di sinistra, di fondo rispondono agli stessi impulsi basici dei conservatori: il primo è l’egoismo. La solidarietà è finta; l’impegno è una messa in scena; il senso di appartenenza è un rito vuoto.
Mi sono ripescato un articolo di Michele Serra (radical chic! ) che ricordavo vagamente, molto bello. «Nella vulgata di destra è diventato "radical chic" tutto ciò che odora di solidarismo (è per lavarsi la coscienza!) o di amore per la cultura (è per umiliare la gente semplice!) e ovviamente di critica del populismo (è disprezzo per il popolo!). Più in generale, il termine è semplicemente perfetto per ridurre quel vasto e disorientato mondo detto “sinistra occidentale” a una ipocrita cricca di potenti con la puzza sotto il naso che hanno perduto ogni rapporto con “il popolo”».
Se la sinistra ha perso l’anima (i diritti sociali, vero) e se andare a una manifestazione contro il razzismo o per l’ambiente non basta per cambiare il mondo - e su questo siamo d’accordo, nel caso si tratta di un corretto argomento di discussione politica - gli utilizzatori irridenti del neologismo di Wolfe invece cosa fanno per gli altri, per le categorie più deboli? La risposta è nulla, oppure molto spesso l’esatto opposto: odio i radical chic che fanno finta di aiutare i neri perché fosse per me i neri potrebbero pure affogare in mezzo al mare.
In genere parla di radical chic chi, nella corsa valoriale al ribasso, tenta di acciuffare e spingere giù tutti gli altri, i quali dovrebbero essere perlomeno indifferenti quanto loro.
*Tornando a Feltrinelli e all’episodio di Bianciardi, che pure fa sorridere, andrebbe solo ricordato che il “miliardario rivoluzionario” perse la vita per inseguire le proprie idee, rivoluzionare appunto, eppure ci sarà comunque il modo di derubricarlo a ricco annoiato, o meglio: radical chic.
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Interessante la storia dell'espressione "radical chic", tuttavia credo che descriva bene una certa categoria di persone, indipendentemente da chi la usi. Ho persino amici di sinistra che si autodefiniscono "radical chic", come una sorta di status raggiunto, ma ovviamente di radical c'è poco. La cosa su cui indagherei, invece, è l'italiano approssimativo del leader del PD. Ho faticato a comprenderlo. Ma non ce la fanno a pagare un social media manager?