L'indiano metropolitano #5 - Le morti bianche da covid e il dilemma della sinistra Usa
Questo è un porto franco in zona rossa
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Newsletter numero 5
Covid, contagi e rimozioni: il virus non è solo una colpa individuale
Il dilemma della sinistra americana
La lotteria di Smemoranda, 1987
Il covid, i contagi e la grande rimozione: il virus non è una colpa individuale
Ci si è ammalati in famiglia, con gli amici, a cena, nei dopocena; ci si è ammalati a scuola, nei viaggi all’estero, al ristorante e al bar. Tutte le casistiche sono state ampiamente raccontate ma ce n’è una che non ha mai goduto di grande pubblicità: ci si è ammalati anche sul posto di lavoro.
La ragione di questa rimozione è anche abbastanza semplice, la stessa che durante la famosa prima ondata portò a procastinare l’istituzione di una zona rossa a Bergamo e ad Alzano, ovvero di natura economica. Anche solo ammetterlo suona come una dichiarazione di guerra alle esigenze del capitalismo, ma il punto è che la salute pubblica è stata ed è in parte sacrificata alla necessità di non fermare del tutto il battello a vapore sul quale navighiamo a vista. Il mercato è un ammalato esigente che non guarda in faccia a nessuno. Il battello perde pezzi, si ingolfa, inquina, ma non immaginiamo un’altra imbarcazione possibile.
Rimuovere o avvolgere in una nebulosa la correlazione contagi-lavoro è tutto sommato semplice e si tratta di una scelta politica. Lo si è fatto, ad esempio, depotenziando il comparto degli ispettorati del lavoro e i controlli sulla sicurezza nei posti di lavoro. I quali uffici sono già sotto organico in condizioni normali, senza pandemie di mezzo.
Il controllo sociale è diventato la cifra obbligata del nostro tempo - dalle app che tracciano gli spostamenti o monitorano le nostre spese, ai posti di blocco fra regioni ai cittadini zelanti che dai balconi inveivano contro i cosiddetti runner - ma magicamente una volta entrati in fabbrica, in ufficio, saliti sulla sella di una bicicletta per consegnare un hamburger, quello stesso controllo per certi versi ossessivo e colpevolizzante si è fatto pigro e accondiscendente. Il messaggio da introiettare è che il virus si contrae esclusivamente per responsabilità soggettive, per omesse attenzioni individuali, o al massimo per pura sfiga.
In generale in questi mesi di mancata sorveglianza nei luoghi di lavoro e delle condizioni nelle quali sono ancora costretti a prestare servizio gli operatori sanitari ha parlato molto, spesso e con dovizia di dati Vittorio Agnoletto su Radio Popolare (a proposito: complimenti per l’Ambrogino d’oro alla trasmissione “37e2”!). Così anche i sindacati, sia confederali che di base, trattati alla stregua di rompicoglioni o peggio ancora difensori di fancazzisti. Eppure la questione dei mancati controlli sui posti di lavoro resta.
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Ad esempio a tutt’oggi il servizio Psal (prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro) di Ats Milano, cioè l’Agenzia nel cuore della seconda ondata, svolge le sue funzioni a mezzo servizio: quando a metà novembre la stessa Ats affermò che il tracciamento complessivo dei contagi era di fatto saltato, la squadra dello Psal fu immediatamente “precettata” per mettersi a seguire ciò che ormai era già sfuggito completamente al controllo. Lasciando quindi sguarnita la vigilanza alle aziende con codice Ateco 25 (fabbricazione).
«Le attività produttive sono talmente in difficoltà che spesso, quando scoprono di avere un contagiato e sono quindi tenute a comunicarcelo, e noi a nostra volta dovremmo risalire al contagio, sostengono che il malato non ha avuto contatti nei due giorni precedenti coi propri colleghi, ed è una coincidenza molto strana», mi racconta C., che è un dirigente di Ats («qui se parli si mette male, c’è un clima di censura e sanzioni disciplinari»). Così nessun altro, a parte il contagiato, è tenuto a restare a casa. Si continua tutti a lavorare, sperando in un po’ di fortuna.
Anche nei casi di cluster accertati in luoghi di lavoro, com’è avvenuto ad esempio agli ospedali San Carlo e San Paolo di Milano, con oltre 70 contagiati lo scorso ottobre, la replica dei dirigenti è sempre la stessa: si sono ammalati fuori, a casa propria, con gli amici, in metropolitana (che gran parte delle persone prende per andare a lavorare…), vai a sapere dove. Ma non qui.
I numeri ufficiali di Inail dicono che al 31 ottobre i contagi sul lavoro da Covid-19 denunciati sono stati 66.781, cioè il 15,8 per cento delle denunce arrivate dall’inizio dell’anno e al 9,8 per cento degli ammalati nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità . Milano è la provincia con il maggior numero di infezioni di origine professionale denunciate a ottobre, seguita da Napoli e Roma. Ma sono numeri ampiamente al ribasso perché «si tratta di casi nei quali si può dimostrare che l’infezione è stata certamente contratta sul lavoro - spiega Agnoletto, che ha da poco pubblicato un libro inchiesta, Senza respiro - e questo non è evidente come quando uno scivola e si rompe una gamba in azienda. Devi dimostrare la connessione in modo chiaro altrimenti l’Inail non ti riconosce la causa lavorativa. Perciò l’ambito dove è più facile farlo è quello sanitario». Ed è anche quello dove l’incidenza del pubblico, inteso come datore di lavoro, è più alta. Dove insomma anche il lavoratore si sente più tutelato nel denunciare l’accaduto.
Posto che risolvere il dilemma della contraddizione tra lavoro e ambiente, in questo caso tra lavoro e salute, è tema che da decenni investe le migliori menti della sinistra, sarebbe utile almeno non far finta di nulla, “privatizzando” la malattia: di covid si muore, sì, anche sul lavoro, e per responsabilità che quindi sono in capo a imprenditori, manager, dirigenti.
Il dilemma della sinistra americana
Su The Nation, storico settimanale della sinistra radicale degli Stati Uniti, è in corso un interessante dibattito che, nonostante la distanza e le differenze specifiche, suona familiare con l’eterna questione che investe puntualmente e da decenni anche l’area italiana. Ovvero: che rapporto avere con i democratici, con i “riformisti”? Meglio lavorare ad un loro spostamento a sinistra, con un rapporto di collaborazione e insieme dialettico, oppure costruire un terzo partito anti-establishment in opposizione sia ai repubblicani che ai democratici?
“Non abbandonare il partito democratico, ma semmai prenderne il controllo”: questa è la tesi di Jonathan Smucker. Per farlo, occorre avere un approccio duplice, interno ed esterno, di fronte al momento elettorale. Ovvero costruire prima una propria struttura, con dei propri fondi e dei propri militanti, per poi convogliarli di volta in volta sulla persona e sulla sfida più contendibile con i democratici; è ciò che hanno fatto in questi anni, con discreti risultati, Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez (ma pure Jamaal Bowman, Cori Bush, Rashida Tlaib e così via).
Questo perché l’asinello non va considerato un monolite, ma piuttosto un «terreno contendibile». Movimenti e organizzazioni come i Black Lives Matter o i Dsa, i socialisti americani, sono riusciti a imporre al centro del dibattito politico i propri temi storici, da quello salariale e occupazionale alla tassazione per le grandi aziende, dall’ambiente col Green New Deal alla questione razziale. «Ci stiamo già organizzando per strappare alla vecchia guardia neoliberale la guida dei democratici», scrive Smucker. E del resto, «abbiamo un recente esempio» che mostra come tutto ciò sia possibile, cioè cambiare gli equilibri di un partito partendo da posizioni minoritarie: il Tea Party e Donald Trump. A destra è quindi già accaduto, a sinistra sta (forse) succedendo.
Paul Blest invece fa notare che secondo un recente sondaggio il 57 per cento degli americani crede che negli Usa ci sia bisogno di un terzo grande partito. Siccome il Partito democratico «continuerà a tradire gli interessi dei lavoratori», serve creare un altro partito che in maniera autonoma e coerente li difenda. Blest ricorda quanto avvenuto in Florida: Joe Biden ha perso con un margine maggiore rispetto a Hillary Clinton ma contemporaneamente nello Stato un emendamento per aumentare il salario minimo a 15 dollari l’ora ha vinto di 22 punti. In Arizona e in Colorado provvedimenti che hanno riguardato un aumento della tassazione per i ricchi e l’estensione della copertura sanitaria hanno ottenuto una percentuale di voti maggiori rispetto a quella di Biden contro Trump.
Nonostante l’impegno di Sanders, Ocasio-Cortez eccetera, per Blest «il cuore dei democratici» rimane dalla parte del business. Il patto con il Partito democratico dovrebbe essere quindi «occasionale» e finalizzato ad arginare i repubblicani, mentre soprattutto nelle città lo si dovrebbe sfidare frontalmente. Non basta più votare il partito del “male minore”, dove coesistono «pecore e lupi», ma crearne un altro che abbia al centro dei propri interessi «il benessere materiale dei lavoratori».
Memorabilia #5
Ecco il famoso sole che ride, prima che diventasse partito, cioè i verdi: campagna referendaria contro il nucleare, anno 1987. I due partiti che promuovono il no sono Democrazia proletaria e Partito radicale. La vittoria alle urne sarà netta, con un ampio superamento del quorum.
Nella foto, la “lotteria del sole” lanciata da Smemoranda, la famosa libreria e agenda scolastica nata a Milano come cooperativa fiancheggiatrice della cosiddetta nuova sinistra.
Arrivederci alla prossima settimana!