L'indiano metropolitano #17 - Falsi pacifisti e ipocriti fustigatori
Questo sarà sempre un porto franco in zona rossa
Newsletter numero 17
C'è un metodo infallibile per smascherare sia coloro che si definiscono per la pace, e invece sono solo al soldo (consapevolmente o meno, in senso figurato o meno) di propagande straniere e imperialiste; sia coloro che cianciano sul “falso pacifismo”, non sapendo o non volendo distinguere i pacifisti veri, per storia e per coerenza, da quelli da operetta.
La prima e semplice lezione, in realtà di non difficile comprensione, è che il pacifismo è un sistema di valori che non si riduce alla sola “pace”, ma prefigura un'idea di società alternativa e quindi la trasformazione di quella presente. Che si definiscano pacifisti, antimilitaristi o nonviolenti, le sensibilità sono diverse, coloro che lo sono davvero sanno e testimoniano che tutto ciò non è legato solo a una questione di conflitti in corso, di confini da spostare o di adesioni internazionali da certificare.
La bandiera della pace non è un vessillo a intermittenza, ma si ricollega ad altri movimenti
e ad altre correnti di pensiero: femministi, ambientalisti, sindacali,
per la giustizia sociale e per la solidarietà.
A dirlo è la storia. Sin dalla Prima internazionale le originarie realtà socialiste, anarchiche e repubblicane compresero che la guerra era uno strumento di controllo in mano alle élite: pochi privilegiati decidevano della vita di centinaia di migliaia di contadini ed operai, i quali venivano mandati a uccidersi fra di loro per motivi che spesso neanche loro conoscevano. Il virus del nazionalismo rendeva possibile tutto ciò. Le classe dominanti dei rispettivi paesi esercitavano quindi il controllo delle masse anche attraverso la guerra, o la minaccia della guerra; funzionale, inoltre, a bloccare l'avanzamento dei diritti sociali e civili, perché lo stato di guerra comporta sempre un congelamento delle rivendicazioni dei lavoratori.
Il prezzo più alto della guerra l'hanno sempre pagato le classi subalterne, e questa è un'altra caratteristica che accomuna ogni conflitto. Mentre la guerra, ogni guerra, rappresenta un reale vantaggio (economico, politico, personale) per una esigua minoranza: che siano i manager di aziende produttrici di armi, che siano leader politici aggrappati al potere, che siano graduati in divisa ansiosi di far carriera.
Dietro alla parola pace espressa con coerenza, c'è questa consapevolezza. Ma ve ne sono altre. Ad esempio che la guerra, cioè la violenta tentata risoluzione di un conflitto, sia una risposta tipicamente maschile, testosteronica; oppure che la guerra, sin dalla sua preparazione industriale, rappresenti il più grande atto di distruzione ambientale dell'uomo; o ancora, che ogni discorso pubblico improntato sul nazionalismo, sulla supremazia di un popolo o di una cultura rispetto ad un’altra, porti con sé come esito finale la guerra. Guerra verso altri Stati, o violenza al proprio interno, verso il nemico, il diverso, l'anormale, il debole, la minoranza.
Il grande inganno di Donald Trump, che nella sua retorica somiglia molto a quella del Charles Lindbergh narrato da Philip Roth in Il complotto contro l'America, è questo: spacciare il non interventismo in questo o quel conflitto per una visione pacifista, quando invece tutto l’impianto ideologico del trumpismo e della destra mondiale è improntato su parole e politiche violente ed escludenti, che sull’utilizzo della forza vorrebbero fondare la propria legittimità. Così come fa sorridere - non facesse piangere - vedere il generale Roberto Vannacci inneggiare alla pace con la Russia e poi al contempo pubblicizzare slogan guerrafondai come “io voglio difendere il sacro suolo della patria anche a costo della vita”.
Il doppio gioco della destra “per la pace” è però speculare a coloro che, commentatori cosiddetti liberal in testa, liquidano il pacifismo a intelligenza col nemico o alternativamente a utopia elementare. Sono i cultori del diritto internazionale a intermittenza, che si infiammano per una linea di confine violata ma solo se l'invasore è il nemico assoluto del momento. Quando il crimine è occidentale, quando la violenza è nostra, li ritrovi ad argomentare con mille distinguo, mille se, mille omissioni, mille cautele. La loro è una sete di giustizia distratta.
Lottare per la pace contempla alcune elementari regole: non si parteggia per un governo per uno Stato, ma per gli sfruttati e per le vittime della guerra, dell’una e dell’altra parte.
Non esiste una morte innocente che vale più di un’altra morte innocente.
Non esiste un crimine di guerra comprensibile e un crimine di guerra imperdonabile.
Non esiste un criminale di guerra a cui poter stringere la mano ed un altro da abbattere con la forza.
La pace non è assenza di guerra, ma presenza di diritti per tutte e per tutti.
L’obiezione di coscienza al servizio militare è il miglior esempio individuale di adesione ad un radicale ripensamento dei modelli di società repressivi, autoritari e fondamentalisti.
Consiglio la lettura di questo reportage da Odessa sul Manifesto, dove si spiega che “la caccia ai renitenti alla leva non riguarda chi ha soldi da spendere. E chi era sfruttato in tempo di pace, continua a esserlo ora”
Sulle idee e sulle pratiche del pacifismo italiano segnalo questo volume, se non altro perché l’ho scritto io…