L'indiano metropolitano #15 - Israele e gli ebrei: a destra è una storia di opportunismo
Questo rimane un porto franco in zona rossa
Rieccoci ancora qui dopo parecchio tempo di latitanza, grazie per la lettura!
Newsletter numero 15
Sabato 4 novembre la Lega sarà in piazza a Milano: “In difesa dell’Occidente, dei Diritti, della Sicurezza, della Pace e delle Libertà”. Secondo gli organizzatori, sarà «un’occasione per ribadire l’importanza della lotta al terrorismo, all’antisemitismo, in difesa dei diritti delle donne e contro il fanatismo jihadista. Le conquiste e i diritti fondamentali dell’Occidente costate milioni di vittime non possono essere messi in discussione». In basso a sinistra della card social c’è la bandiera di Israele e la scritta “per il diritto all’esistenza di Israele”, diritto sul quale in Italia solo una minoranza senza rappresentanza politica, paragonabile per consistenza ai no vax (pochi, ma iper-rappresentati sui media), ha da dissentire.
Fa impressione, per chi conosce la Lega di Matteo Salvini e le sue comprovate relazioni con il mondo neofascista italiano e internazionale, questo attaccamento così esibito e acritico verso lo Stato ebraico. In generale, la destra che una volta si sarebbe definita estrema (all’estero ancora lo fanno) e oggi è al governo, con Fratelli d’Italia in testa, vanta una vicinanza impensabile fino a qualche anno fa con le comunità ebraiche e di rimando con Israele.
Nonostante le nostalgie del Ventennio; nonostante la presa di distanza sempre parziale del periodo fascista e anzi la riproposizione di parole d’ordine di allora come “Dio, Patria, Famiglia”; nonostante l'immissione nel dibattito pubblico di spauracchi chiaramente antisemiti come la lotta “al progetto globalista e mondialista” in chiave sovranista, con il vecchio finanziere ebreo George Soros descritto come un vampiro che finanzia l'immigrazionismo; ecco, nonostante questo oggi sotto accusa per antisemitismo, nel dibattito pubblico, sembrano esserci la sinistra, l’associazionismo pacifista o chiunque sostenga i diritti del popolo palestinese (che non sono alternativi a quelli del popolo israeliano o degli ebrei).
Ottantacinque anni dopo le leggi razziali volute da Benito Mussolini, periodo nel quale l’ebraismo veniva liberamente accusato di ogni “nefandezza morale e politica” a causa della “struttura biologica e psichica” sanguinaria degli ebrei [citazioni di un bestseller dell’epoca, Sotto la maschera di Israele] e grazie a ciò il passaggio dalla violenza verbale all’eliminazione fisica fu reso quasi naturale, 80 anni dopo il rastrellamento del Ghetto di Roma ad opera dei nazifascisti, questo smottamento ha delle ragioni che un libro del 2013 analizzava in maniera molto chiara. La fine della modernità ebraica - Dalla critica al potere di Enzo Traverso (edito da Feltrinelli) fornisce gli strumenti necessari per spiegare un fenomeno che, perlomeno per chi scrive, rimane contronatura.
Il lungo processo dell’assimilazione ebraica nel mondo occidentale comincia con l’Illuminismo: gli intellettuali ebrei che percorrono la strada dell’emancipazione sono dei paria, quindi per naturale reazione e tendenza spesso rivoluzionari e anticonformisti; data l’identità ebraica sono altrettanto spesso cosmopoliti se non internazionalisti. La loro influenza sul pensiero critico moderno, basti pensare alla nascita del socialismo e al contributo di Karl Marx, è paragonabile al Rinascimento; la creatività imposta alla cultura dei paesi europei e poi degli Stati Uniti è comparabile all'acqua in ebollizione che scoperchia la pentola, citando la parabola di Eric Hobsbawm (un altro ebreo e comunista).
Gli ebrei rappresentarono così la modernità, ma per le forze della regressione ne furono anche il capro espiatorio e la Shoah sta lì a dimostrarlo. «Minano il modo di vita tradizionale, sradicano tutta la società, le strappano le radici (…) Il vero ebreo è un girovago, un nomade, universalizza ogni cosa (…) lui prende la vita di un popolo, radicato nella terra, e la trasforma in questa cultura cosmopolita basata sui libri, sui numeri, le idee e, capisci… questa è la sua forza. Prendi le più grandi menti ebree: Marx, Freud, Einstein, che cosa ci hanno dato? Il comunismo, la sessualità infantile e la bomba atomica», è l’epico dialogo in The believer (2001), con il neonazista Danny che spiega al giornalista il suo odio per gli ebrei.
Il dramma dell’Olocausto comporta da un lato la cancellazione della presenza ebraica in Germania, Austria e Polonia, laddove avevano avuto un ruolo intellettuale di primo piano; dall’altro, la tragedia ha un effetto catartico - scrive Traverso - sulla coscienza storica europea, con la memoria della Shoah e il sostegno al nascente Stato di Israele che diventano «la nuova “religione civile” dei diritti umani e l’avamposto dell'Occidente nel mondo arabo. I guastafeste e i perturbatori dell’ordine ne sono diventati i pilastri».
In una Europa che prende finalmente coscienza delle proprie colpe, gli ebrei non sono più gli esclusi e gli emarginati del giorno prima; ormai da secoli nella maggior parte dei casi non si vestono diversamente e non vivono separati dal resto delle persone. Dal dopoguerra in poi, via via progressivamente conservatori e nazionalisti non identificano più l’ebreo come la possibile minaccia esterna ma anzi, la contemporanea epopea di Israele racconta la nascita di un ebreo nuovo, forte, che (ri)scopre e rivendica una propria identità nazionale.
Nel frattempo il razzismo delle destre di ieri si rinnova nel rifiuto, ancora verbalmente violento come quando nel mirino c’erano gli ebrei, degli immigrati. «Ai nostri giorni i migranti sono gli eredi delle classi pericolose ottocentesche, dipinte delle scienze sociali dell’epoca come ricettacolo di tutte le patologie sociali, dall’alcolismo alla criminalità alla prostituzione, bacillo di epidemie come il colera». Scriveva ancora Traverso undici anni fa: «Il ritratto dell’arabo musulmano dipinto dalla xenofobia contemporanea non differisce di molto da quello dell’ebreo dipinto dall’antisemitismo di inizio Novecento. Le barbe, i filatteri e i caffetani degli ebrei emigrati dall’Europa orientale un secolo fa corrispondono alle barbe e ai veli musulmani di oggi. In entrambi i casi, le pratiche religiose e culturali, l’abbigliamento e le abitudini alimentari di una minoranza sono usati per costruire lo stereotipo negativo di un corpo estraneo e inassimilabile alla comunità nazionale». E ancora: «Chiamarsi Mohammed implica oggi inconvenienti comparabili a quelli incontrati un secolo fa dagli ebrei che emigravano a Berlino, Vienna e Parigi». In questo senso - aggiungo io - basta anche solo rivedere Barriera Invisibile (1947), film di Elia Kazan che vinse l’Oscar come miglior film e che raccontava le disavventure di un giornalista che decise di fingersi ebreo per qualche settimana, così da provare sulla propria pelle le conseguenze dell’antisemitismo.
Le nuove-vecchie destre perorano oggi diritti definiti su base etnica, nazionale, oppure religiosa; in un quadro di supremazia occidentale e di una libertà escludente, riservata a chi se la può permettere. Terminata l'anomalia ebraica, normalizzata la carica antisistema di un pensiero eretico, a destra (per ora?) non c'è più bisogno della giudeofobia. Ma anzi, riconoscendone la forza militare e identitaria, Israele - guidato oggi da forze di destra, anche estrema - diventa un modello da difendere tout-court, rimuovendone la complessità, dimenticando ad esempio la forte opposizione interna che per mesi ha contestato il governo di Tel Aviv. La costante ricerca di una polarizzazione delle posizioni, infatti, pretende l’occultamento di ogni diversa sfaccettatura.
«Come emerso da anni per diverse destre radicali nel mondo, essere formalmente amici degli ebrei oggi è fondamentale. Perché permette di manganellare meglio musulmani e migranti latamente intesi. Permette anche di schierarsi sul confine dello scontro di civiltà, contro il mondo arabo. Per ragioni diverse da chi vive in Israele ma in parte sovrapponibili», scriveva Bruno Montesano sul manifesto il 21 dicembre 2022. Ed ecco così che in chiave opportunistica tutto, forse, torna.
Significa quindi che l’antisemitismo di destra sia scomparso? Che il pregiudizio antiebraico - che persiste, in maniera trasversale - alberghi solo altrove? La risposta è no, nella misura in cui l’antisemitismo rappresenta una variabile del razzismo; nella misura in cui il mancato rispetto di una minoranza non finisca, prima o poi, per travolgere anche le altre.